“Omnes viae Romam ducunt.”

“Tutte le strade portano a Roma.”

[Proverbio popolare]

Dopo aver sgominato il culto del predicatore Iacob e aver riportato pace e tranquillità ad Aelia Capitolina e sul Golgotha, i custodes, su suggerimento sia di alcuni commilitoni arrivati dalla sede della Cohors Arcana di Antiochia sia del Procurator Augusti Appio Cornelio, sono rimasti in città approfondendo le indagini aspettando il responso alla loro missiva inviata a Roma.

Le direttive che arrivano dalla sede centrale a firma della Magistra Lucilla sono delle più drastiche, l’anello laccato di nero con il teschio e il monogramma Chi-Rho indica una cosa soltanto ovvero lo sterminio di tutti coloro ritenuti colpevoli o anche solo sospettati di esserlo tramite crocifissione. Gli unici a poter essere risparmiati sono, oltre ad uno dei capi del culto da portare a Roma per ulteriori interrogatori, coloro di cui i custodes sono più che certi dell’innocenza. Gli ordini vengono quindi trasmessi ad Appio Cornelio che predispone il necessario per l’esecuzione.

Il Golgotha così ritorna alla sua funzione di collina delle condanne a morte riempiendosi delle croci del centinaio di prigionieri catturati nella notte dell’epurazione del culto, tra schiavi, uomini, donne e bambini monito per chiunque voglia complottare contro l’Urbe ed infrangere la Pax Romana. Gli unici sopravvissuti, Giora Ben Harfa, uno dei capi della setta, Salomé, la giovane ragazza appena iniziata con cui Cattus era entrato in confidenza, quattro schiavi della famiglia Anarice (due donne di origine gallica e due uomini siriani), e il bambino unico superstite di quella stessa famiglia Anarice che era stata una delle più influenti di Aelia Capitolina, sono ora sotto la custodia dei membri della Cohors Arcana che hanno il compito di portarli a Roma.

Il gruppo, scortato da una turma (trenta cavalieri) della Legio III Gallica, si dirige quindi verso Ascalon, una piccola ma fiorente cittadina commerciale sulla costa ad una giornata di viaggio da Aelia Capitolina verso sud-est dove hanno intenzione di trovare un passaggio fino ad Alessandria d’Egitto e da qui imbarcarsi su un convoglio militare con destinazione Roma. Arrivati in città il giorno a. d. XI Kalendas Iunias (undici giorni prima delle Calende di Giugno ovvero il 22 Maggio) congedano la scorta e si mettono in cerca di un passaggio prestando orecchio alle voci del porto sulle prossime navi in partenza. Qui trovano ed in seguito si mettono d’accordo con un mercante d’olio d’oliva greco di nome Antimaco che la mattina seguente deve partire verso Alessandria per portare un piccolo carico per far conoscere la sua merce nella Capitale della Prefettura Meridionale.

Trovato facilmente l’accordo, anche perché è sempre utile per un mercante aiutare l’autorità, alcuni dei custodes approfittano della situazione per far baldoria con i marinai del porto durante la serata approfittando anche della situazione per darsi un po’ al gioco d’azzardo che sorride a Vetius, mentre Calvus va in pareggio. Le cose un po’ degenerano poiché con una parte dei soldi vinti il reziano compra un’anfora (26 litri) di vino da offrire ai nuovi compagni e il mattino dopo, quando tutti si svegliano, Seppius , l’aiutante di Calvus, viene trovato legato a testa in giù all’unico albero della nave con ancora i postumi della sbornia. Tra le risate generali il poveretto viene slegato e la nave parte verso la sua destinazione.

Il viaggio procede tranquillo, si naviga sotto costa fermandosi durante le notti nelle piccole cittadine costiere o in golfi naturali, dopo cinque giorni però, arrivati verso sera, la nave non si ferma e all’orizzonte si scorge un intenso bagliore rossastro, come se il mare stesse andando a fuoco. Poco dopo, tutti riescono a scorgere e ad ammirare l’imponente Faro di Alessandria, miracolo di architettura voluto dai primi Tolomei, sulla cui cima brucia un immenso braciere, alimentato da un denso olio nero, la cui luce viene indirizzata grazie ad una serie di specchi. Dietro al Faro si estende la città di Alessandria d’Egitto con il suo immenso porto, uno dei maggiori dell’Impero, e il conseguente intenso traffico navale.

I custodes attraccano e sbarcano e si fanno strada tra i moli e le banchine piene di gente e merci delle più disparate diretti alla zona militare, ma ad un certo punto una nave dalla foggia esotica su cui stanno venendo caricate numerose casse di quelli che sembrano reperti archeologici ne cattura l’attenzione. Cattus, incuriosito, si avvicina per parlare con quello che sembra essere il responsabile della nave e del carico e che salta all’occhio essendo un numida vestito con un’armatura dorata e con un kopesh al fianco. Il numida, che risponde al nome di Nefru, si mostra scocciato dall’interruzione e risponde in maniera breve e concisa alle domande che gli vengono poste, alla fine dello scambio le uniche informazioni utili che i custodes ottengono sono che lui è il supervisore delle operazioni di carico, gli oggetti imbarcati appartengono al suo padrone Senmut che è risiede a Tebe, la città dei vivi e dei morti, e che il carico è destinato ad essere venduto all’aristocrazia senatoria a Roma.

Allontanatisi dalla zona, i custodes raggiungono il porto militare e vengono accolti dal Prefetto della Classe Alessandrina (la flotta militare di stanza ad Alessandria) che comunica loro che il prossimo convoglio militare con destinazione Roma partirà dopo tre giorni come scorta della grandi navi granaio. I custodes allora si dirigono ai Castra Praetoria della città per ottenere ospitalità in attesa della partenza.

Ave atque vale!

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